Quando la libertà diventa un limite

Partiamo dal fatto. Mia figlia di sette anni sta realizzando che cosa sia la morte, o meglio, ha preso coscienza del fatto che sia ineluttabile ma non le è chiaro il perché e come accettarlo. Ogni sera, prima di coricarsi, riemergono i pensieri “scomodi”, la inquietano e io mi sento chiamata in causa come l’oracolo interpellato che conosce ogni risposta.

Il problema è che, per la prima volta nella mia carriera genitoriale, mi trovo di fronte a un alto muro, quel muro è rappresentato dal mio ateismo, scelto e perseguito nella convinzione che fosse il percorso più libero possibile per la nostra famiglia e che ora mi si palesa davanti come il mio più grande limite.

Non posso appellarmi a un credo per renderle la morte più accettabile. Posso raccontarle la visione dell’aldilà interpretata dalle varie religioni, ma non la consola, perché sente che non consola neppure me.

Non avrei mai immaginato che il mio grande tabù della morte venisse a chiedermi il conto attraverso le domande di mia figlia. Come se il terrore che da sempre mi affligge, al pensiero della  mia dipartita e che puntualmente scaccio non appena riemerge, avesse deciso di palesarsi in altre forme, costringendomi a trovare una risposta che non ho.

Ho provato varie strade, presa dalla frenesia di risparmiare almeno a lei quel calvario esistenziale con cui convivo da sempre. Ricordo ancora nitidamente una mia inconsolabile crisi di pianto quando avevo circa otto anni al grido: “Non voglio morire!”, che aveva non poco turbato mia madre.

Ho quindi provato a percorrere la strada opposta, quella dell’inno alla vita, alle fortune infinte che abbiamo ad essere sani, benestanti e a vivere in un paese in pace, quindi potenzialmente lontani dai maggiori rischi di decesso. Ma neppure questo l’ha consolata, perché il punto non è contestualizzare la nostra esistenza razionalmente e provare gratitudine per questo. Lo può fare un adulto, con un costante esercizio di meditazione e introspezione.

Il punto non è neanche spiegarle il perché si muore. Questo le è scientificamente chiaro. Ciò che io dovrei offrirle sono gli strumenti per convivere con questo pensiero, strumenti che io non ho ancora trovato neppure per me stessa.

Un altro episodio analogo è accaduto qualche giorno fa. Stavamo parlando dei costumi di carnevale e le ho chiesto quale volesse indossare quest’anno tra i suoi da pirata, super eroina o fata. La sua risposta mi ha infilzata dritta verso il cuore: “Sai, mamma,” mi ha detto con un visino sconsolato, “io vorrei vestirmi da principessa, ma lo so che è un cliché”.

Ecco sgretolarsi tutti i propri intenti femministi in una frase che racchiude l’esatto opposto. Nella mia buona fede di mostrarle tutte le infinite possibilità di essere, ne ho esclusa una a priori, basandomi su quelle che pensavo fossero le sue inclinazioni e che ora realizzo essere probabilmente solo le risposte che lei riteneva giuste alle mie aspettative.

Per quanto in questa seconda situazione la risoluzione risulta nella pratica più semplice rispetto alla prima (entro la settimana avrà il suo bellissimo e cangiante vestito da principessa), mi trovo a dover gestire sensi di colpa poco razionali, di quelli che fanno di tutta l’erba un fascio e che mi spingono a pensare di aver sbagliato ogni cosa.

Scrivere però da sempre, mi permette di interpretare le cose con lucidità e se ciò che è successo ha una sua ragione, al di là dei miei maldestri tentativi di rendere i miei figli persone libere di pensiero e corpo,  sta nella condivisione che sto facendo con voi lettori.

Devo ammettere che dopo la costernazione e le differenti fasi di elaborazione, questi fatti mi hanno portato a un grande senso di liberazione, perché ho capito che non abbiamo tutte le risposte e quelle che diamo a volte non sono quelle giuste e sapete cosa vi dico? Va bene così.

Forse anche per un figlio è più rassicurante vedere che gli adulti chiamati ad accompagnarli durante le loro trasformazioni di vita non sono perfetti per niente ed è forse più facile aspirare a diventare grandi senza la sensazione angosciante di dover conoscere tutto e sapere sempre cosa credere e cosa dire.   

Ammettere i propri limiti, le proprie paure e i propri “non lo so”, innesca un’ inaspettata forza di avvicinamento. Non hanno bisogno di oracoli i nostri figli, ma di essere umani che sanno accogliere e ascoltare, sempre e comunque.

È difficile per me, che credo nella parola più che in qualunque altra cosa, dover ammettere che a volte dovrei limitarmi a tacere e ad abbracciare, ma ho capito che solo così si può davvero guardare in faccia una paura, insieme, per mano e verso la stessa direzione.

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