Immaginiamo questo scenario: un uomo di mezza età, con un passato da fumatore, alta pressione e con una dieta poco equilibrata, subisce un infarto. Viene salvato in tempo. Dieci anni dopo, anche suo figlio, che soffre di ipertensione e ha una storia familiare di infarti, si trova a fronteggiare lo stesso dramma. Ora moltiplichiamo questo caso per migliaia, milioni di persone nel mondo che convivono con obesità, stili di vita poco sani e abitudini alimentari scorrette. Sono vite in pericolo, ma sono anche un peso crescente per i sistemi sanitari. Fino a che punto va rispettata la responsabilità individuale, legata indissolubilmente al diritto di scegliere, quando queste scelte mettono a rischio la salute propria e collettiva?
Vivere in modo sano — dove è possibile, perché è evidente che ci sono lavori usuranti, esposti a sostanze tossiche o con ritmi estenuanti — significa adottare comportamenti come andare al lavoro in bicicletta, fare regolare attività fisica, non fumare, limitare alcol e cibi grassi, dormire a sufficienza. Sono scelte che tutti “potremmo” fare. Oppure che “dovremmo” essere obbligati a fare?
Insomma, quando una persona sceglie consapevolmente di nuocere alla propria salute ma così facendo provoca danni agli altri (senza parlare dei costi che causa al sistema sanitario), cosa si può fare? È una questione etica complessa e divisiva, ma è anche un problema concreto per chi deve legiferare e trovare un equilibrio tra libertà individuale e tutela della salute pubblica.
Lo stato potrebbe “obbligare” a tenere sotto controllo la pressione e il colesterolo, magari persino con incentivi o premi economici o voucher per andare in palestra. Oppure si potrebbe procedere tassando cibi “poco salutari”? Far pagare per le spese sanitarie causate da comportamenti rischiosi per la salute? Sarebbero, queste scelte, non solo paternalistiche ma addirittura modi operandi – direbbero alcuni – che ledono il diritto all’autonomia di scelta, di decidere di che “morte morire”, addirittura. Fino a dove si vuole arrivare? Attuare programmi di sterilizzazione forzata in contesti di grande povertà e ai danni, soprattutto, di donne povere, senza il loro consenso: sì o no? Lo si è fatto dagli Stati Uniti all’India. Fino a che punto lo stato può (o deve) interferire con l’autonomia individuale in nome della salute pubblica o del bene della persona stessa? E poi, quanto è efficiente la costrizione, il divieto, l’imposizione? In alcuni casi il dilemma non si pone se imporre un trattamento forzato o un isolamento nei casi di rifiuto serve per tutelare la salute pubblica della collettività tutta. Ma in altri casi, come quando si tratta di ridurre i rischi di infarto e ictus tramite stili di vita, la questione dell’intervento dello stato si presta ad essere un vero dilemma.
Quello della responsabilità individuale è un tema centrale anche in Nel cuore degli altri, un libro molto intenso e crudo, vero e intimo, probabilmente non consigliabile agli ipocondriaci, scritto da Gabriele Bronzetti.
Bronzetti è professore di Cardiologia presso l’Università di Bologna e l’Ospedale Sant’Orsola di Bologna e prima di fare il medico faceva il barista. Tra il riferimento a una canzone e l’altra, rievocando scene di un film noto o le vicende di romanzi che sono entrati nella memoria collettiva (o così dovrebbero), il cardiologo racconta storie vere di suoi pazienti e non, vite di malati nati cardiopatici o diventati tali (per motivi più vari ma che, semplificando, sono riconducibili a infezioni sopraggiunte durante la vita o allo stile di vita).
Nelle pagine, il lettore “segue” Bronzetti che spiega ai suoi pazienti gli scompensi cardiaci di cui soffrono, le origini, le cause, la prevenzione, le cure possibili per le forme meno preoccupanti fino a quelle più gravi: trapianti, medicine che rallentano o accelerano i battiti, ma anche attività fisica e modifiche dello stile di vita. Non nasconde proprio niente, Bronzetti, e per essere certo che tutti capiscano, ricorre a immagini, paragoni che con il cuore non c’entrano poco o nulla. Poi si fa da parte, per lasciare spazio alla vita, quella che tutti, malati e non, siamo invitati a sceglierci.
«Dopo aver letto che il cuore più va forte e meno si vive, Alice è venuta con l’ansia di morire presto. Continuo: “Un elefante con trenta battiti al minuto può arrivare a settanta anni. Se Peppa Pig ascoltasse il fratello George, sentirebbe settanta pulsazioni al minuto e lo dovrebbe sopportare anche più di vent’anni (ammettendo che non avessimo inventato il prosciutto). La breve vita salva però George dall’arteriosclerosi, quella degli umani che abusano di lui. …. Si nasce con un sacco di battiti e un sacco d’amore. … L’importante è che nemmeno un battito vada sprecato»: le parole del cardiologo informano ma senza mai imporre decisioni ai pazienti; piuttosto cercando con loro il dialogo, come una guida alpina, quando in montagna sprona ad arrivare alla vetta, magari sorregge ma non compie il percorso al posto di altri. E questi altri possono anche scegliere di tornare indietro. Di fermarsi.
Oggi la sfida di conciliare libertà di scelta e giustizia sociale, cura della persona e tutela del bene comune rimane aperta, e più che mai urgente. In un mondo in continua trasformazione, dove le responsabilità individuali si intrecciano con quelle collettive, serve una nuova alleanza etica e politica capace di mettere davvero al centro concetti come dignità, equità, autonomia e partecipazione. In fondo, come diceva John Rawls, giusta non è forse quella società in cui le istituzioni assicurano equità e promuovono la partecipazione di tutti i cittadini? Anche nella cura…