Se domani non torno, distruggi tutto

Quanti di noi dopo aver appreso la notizia della scomparsa di Giulia Cecchettin insieme al suo ragazzo hanno subito pensato al peggio? Quanti hanno tentato di scongiurare quel pensiero che, con il passare dei giorni e il diffondersi delle prime indiscrezioni su alcune dinamiche interne alla coppia, si faceva sempre più insistente? Infine in quanti al ritrovamento del corpo di Giulia non hanno provato il benché minimo sconcerto?

Insolita una tale capacità di previsione collettiva per fenomeni tanto “sporadici”. Evidentemente 106 femminicidi in un anno non sono ancora sufficienti a definire il problema sistemico. Non stupisce del resto una certa “resistenza” sociale e politica, analizzando alcuni dati.

Secondo il Gender social norm index delle Nazioni Unite, che misura stereotipi e convinzioni che producono diseguaglianze di genere, più di un quarto della popolazione mondiale ritiene giustificabile che un uomo picchi la compagna.

L’Italia ha indici particolarmente preoccupanti: il 61,5% della popolazione nutre pregiudizi contro le donne e il 45% ha convinzioni che possono condurre a giustificare la violenza fisica, sessuale e psicologica da parte del partner.

Non ho intenzione in questo articolo di ribadire concetti già stranoti a chi vuole davvero comprendere le cause culturali che rendono il femminicidio in Italia soltanto la punta di un Iceberg gigantesco, che invade ogni ambito della vita pubblica e privata di una donna. Vorrei piuttosto provare a soffermarmi su alcuni segnali estremamente rilevanti che stanno dimostrando un coinvolgimento sociale che non può più essere ignorato.

A partire dalle coraggiose dichiarazioni pubbliche di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che è stata in grado di incanalare tutto la sua disperazione indicibile in un messaggio politico fortissimo. La pornografia del dolore non ci serve, sembrava volerci dire, serve piuttosto che la mia visibilità di vittima possa farsi sentire da più persone possibili diventando artefice di un cambiamento.

La lucidità delle sue parole sono rimaste a echeggiare per giorni, perché ciò che lei ha fatto è stato proprio allontanare il più possibile l’accostamento al “mostro” dall’omicida di sua sorella e dichiarare fortemente l’innominabile: lui è semplicemente uno dei tanti frutti della nostra cultura patriarcale, in cui la gerarchia del potere va mantenuta ad ogni costo e se una donna tenta in qualunque modo di distaccarsene, può arrivare a perdere la sua stessa vita. Questo è sistemico, perché ogni femminicidio parte dalle stesse dinamiche di controllo e sopraffazione sull’altra persona.

Il suo appello alle istituzioni politiche e scolastiche e la “chiamata” collettiva a “bruciare tutto” hanno avuto un impatto fortissimo nei giorni successivi, fomentando ancora di più l’intolleranza ormai dilagante.

500.000 sono state le persone che sono scese in strada a Roma per il corteo del 25 novembre, nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. 15.000 mila a Torino e altrettante in molte altre città d’Italia.

C’è una tendenza evidente nella volontà di non stare più in silenzio e come sempre accade, le grandi rivoluzioni partono dal rumore del popolo.

Un altro elemento estremamente positivo è stata la numerosa partecipazione maschile, sia come presenza fisica che come sostegno mediatico. Non ho mai visto tanti video realizzati da uomini e ragazzi che ci hanno messo la faccia dichiarandosi consapevoli del privilegio che loro malgrado posseggono e che spetta a loro per primi la responsabilità di riconoscere e diffondere una cultura del rispetto e della parità, condannando ogni azione, battuta, atteggiamento o dinamica che riscontrano tra coetanei, colleghi o amici.

Queste dichiarazioni pubbliche acquisiscono un valore politico molto importante perché trasformano la lotta contro le disuguaglianze e gli abusi da un problema esclusivamente femminile a uno collettivo. Ma soprattutto si discostano da una modalità molto diffusa tra gli uomini che non si ritengono colpevoli né capaci di atti simili, che consiste nel prenderne le distanze, non occuparsene e soprattutto offendersi quando la questione viene posta in termini generalisti e culturali. Non sia mai nominare ancora la parola patriarcato: “Io non sono sessista e non mi riconosco in questa cultura”. Il problema è che neppure gli assassini, gli stupratori e gli abusanti di donne se interpellati si definirebbero mai dei patriarca.

Continuare a condannare e a non farci bastare quel poco di attenzione al problema che viene concesso dalle istituzioni restano le azioni fondamentali, ma credo sia anche importante riconoscere i segni positivi di un processo che si è innescato e che ha intenzione di fare sempre più rumore.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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