Se la tua casa è la bocca di uno squalo

La tragedia di Cutro, se così vogliamo definirla, attribuendole un carattere fatalista e sconcertante, che poco si addice all’ennesimo epilogo prevedibile della malagestione politica dell’accoglienza, ha di nuovo scosso profondamente le vite di tutti noi.

Ma forse ancor più dei corpi chiusi dentro sacchi di plastica in fila lungo la spiaggia, ad alcuni avranno fatto riflettere le dichiarazioni del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Un giornalista che premette di rivolgere la domanda all’uomo e non al politico gli chiede: -Se lei fosse disperato, cercherebbe di raggiungere l’altra parte del mondo anche con questi mezzi per mare?-

La risposta del ministro parte con un paio di no decisi ancor prima che l’interlocutore termini la domanda per poi spiegare che lui è stato educato alla responsabilità di non aspettarsi nulla dal luogo in cui vive ma a chiedersi cosa può fare lui per il paese in cui vive.

Ho voluto andare a cercare il video di questa dichiarazione perché temevo e forse speravo fosse l’ennesimo fraintendimento di una notizia riportata. Invece, purtroppo, il ministro Piantedosi ha detto esattamente questo.

C’è un abisso di superficialità e ignoranza in questa affermazione che impedisce qualunque forma di commento perché priva persino della compassione umana che attribuisce almeno a questi morti senza nome il diritto alla disperazione. Affermare che la sua educazione gli impedirebbe di scappare e mettersi in mare sposta completamente l’attenzione sulle reali responsabilità, ponendole in mano a chi muore con i propri bambini nel tentativo di scappare da un’altra morte o sbattendo in carcere presunti scafisti che spesso, come spiega benissimo il giornalista Valerio Nicolosi, sono migranti con qualche minima conoscenza di navigazione, obbligati a guidare le imbarcazioni per nascondere i veri trafficanti.  

Sono i disperati a non dover partire, non noi politici a dover assicurare corridoi umanitari, togliendo dall’illegalità l’ingresso nel nostro paese.

Per giorni ho riflettuto su queste affermazioni nel tentativo di trovare le giuste parole con cui vorrei rispondere al ministro, ma io non sono disperata, e non lo sono mai stata al punto di dover mettere la vita dei miei figli su una barcarola scassata, come unica fievole fonte di speranza di un futuro migliore da ciò che mi sono lasciata alle spalle.

Ma ho trovato nei versi della poeta etiope Warsan Shire l’unica risposta possibile e voglio condividerla con voi perché dice tutto ciò che serve per mettere a tacere qualunque ulteriore tentativo di definire irresponsabili, sconsiderati o incoscienti chi accetta di affrontare il mare a quelle condizioni.

Nessuno lascia la casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo.

Scappi al confine solo quando vedi tutti gli altri scappare,

i tuoi vicini corrono più veloce di te,

il fiato insanguinato in gola,

il ragazzo con cui sei andata a scuola

che ti baciava follemente dietro la fabbrica di lattine

tiene in mano una pistola più grande del suo corpo.

Lasci la casa solo quando la casa non ti lascia più stare.

Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci.

Fuoco sotto i piedi,

sangue caldo in pancia,

qualcosa che non avresti mai pensato di fare,

finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce e anche allora

continui a mormorare l’inno nazionale,

sotto il respiro, a mezza bocca.

Solo quando hai strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto,

singhiozzando a ogni boccone di carta,

ti sei resa conto che non saresti più tornata.

Devi capire che nessuno mette i figli su una barca

a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.

Nessuno si brucia i palmi sotto i treni, sotto le carrozze,

nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion

nutrendosi di carta di giornale

a meno che le miglia percorse

non siano più di un semplice viaggio.

Nessuno striscia sotto i reticolati,

nessuno vuole essere picchiato, compatito,

nessuno sceglie campi di rifugiati

e perquisizioni a nudo che ti lasciano il corpo dolorante,

né la prigione, perché la prigione è più sicura

di una città che brucia

e un secondino nella notte è meglio di un camion pieno di uomini

che assomigliano a tuo padre.

Nessuno ce la può fare,

nessuno può sopportarlo,

nessuna pelle può essere tanto resistente.

Andatevene a casa neri, rifugiati, sporchi immigrati, richiedenti asilo,

che prosciugano il nostro paese,

negri con le mani tese e odori sconosciuti.

Selvaggi.

Hanno distrutto il loro paese e ora vogliono distruggere il nostro.

Come fate a scrollarvi di dosso le parole,

gli sguardi malevoli,

forse perché il colpo è meno forte

di un arto strappato,

o le parole sono meno dure di quattordici uomini tra le cosce.

Perché gli insulti sono piu facili da mandare giu delle macerie,

delle ossa del corpo di tuo figlio fatto a pezzi.

Voglio tornare a casa,

ma casa mia è la bocca di uno squalo,

casa mia è la canna di un fucile

e nessuno lascerebbe la casa

a meno che non sia la casa

a spingerti verso il mare.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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