Un piano per coltivare lo spirito di frontiera?

L’Italia presenta il piano Mattei, che prende il nome dallo storico fondatore dell’Eni – “5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie”, come ha spiegato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che saranno attinti dal fondo italiano per il clima (circa 3 miliardi ) e dal fondo per la Cooperazione allo sviluppo (2,5 miliardi e mezzo). Per la presidente della Commissione Eu, Ursula von del Leyen, “il nuovo Piano Mattei rappresenta un importante contributo alla nuova fase della nostra partnership con l’Africa e si integra con lo European Global Gateway” (150 miliardi per le infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo).

Ma le critiche dell’Unione Africana non si nascondono. Per il capo della Commissione Mahamat Faki, “sul Piano Mattei avremmo voluto essere consultati”, “l’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione”. E poi, “non ci possiamo più accontentare di promesse, spesso non mantenute”, ha sottolineato Faki.

Così mi torna in mente un pomeriggio di quasi quattro anni fa, in un ufficio di Lugano.

“La vera lotta consiste nel convincere i Paesi occidentali a cambiare le loro relazioni con i Paesi africani, per esempio”. Questo non è stato detto nelle stanze di palazzi governativi romani in questi giorni, ma sono le parole dello scrittore togolese Sami Tchak in un’intervista del 2020 e rilasciata a Lavinia Sommaruga, già coordinatrice per la politica di sviluppo di Alliance Sud (in Svizzera). Ero presente anch’io…

Rileggere quel testo fa rabbia perchè l’auspicato cambiamento delle relazioni tra gli Stati (nelle politiche nazionali e internazionali, nella geopolitica mondiale) rimane oggi, appunto e ancora, un auspicio.

Certo, il continente africano si offre come un bacino per investimenti stranieri, che certamente possono aiutare lo sviluppo economico e sociale dei paesi destinatari. Ma, come ricorda Sami Tchak, non è necessariamente aiutando direttamente i poveri che potremo portare dei cambiamenti: “È chiaro che dobbiamo farlo, è urgente! Ma è necessaria più giustizia nelle relazioni”.

A partire dai rapporti di emancipazione letteraria. Perché non è possibile che le letterature africane continuino, largamente, a svilupparsi nelle lingue europee, le lingue dei colonizzatori. Naturalmente – e Sami Tchak lo ricorda – esistono scritti in lingue africane, ma sono meno conosciuti a livello internazionale e anche nazionale: ne segue che “le nostre letterature (africane n.d.r.) siano un po’ troppo orientate verso l’estero e non sufficientemente radicate a livello locale”. Dov’è lo spazio per le diversità costitutive delle culture africane, dove l’elemento di spiritualità, comune denominatore di un continente molto variegato?

Ci vogliono insomma tanto cambiamenti strutturali, quanto cambiamenti culturali, che ribaltino la percezione dei poveri – quelli che pagano per attraversare il mare e per venire a diventare schiavi!

Speriamo che richiamandosi alla figura di Mattei, il piano per il continente africano presentato in questi giorni a Roma possa anzitutto servire a coltivare lo spirito di frontiera e il rispetto delle culture diverse.

Qui l’intervista a Sami Tchak apparsa su Global.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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