Vinti e vincitori: la modernità de I Malavoglia

Vinto [vìn-to], aggettivo di vincere, significa sopraffatto, sconfitto. Sta anche a significare, come participio passato del verbo, qualcosa di portato a termine con successo, e per i vocabolari italiani accompagna i sostantivi guerra o battaglia, solitamente.

Un vinto si dice di chi nella vita non è riuscito a realizzare le proprie aspirazioni. Il ‘Ciclo dei Vinti’ è una raccolta di romanzi dello scrittore siciliano Giovanni Verga (1840-1922), principale esponente del Verismo, movimento letterario italiano della fine dell’Ottocento che si basava sul “vero”, raccontando la quotidianità reale così com’era. I soggetti di questa quotidianità spesso erano le classi meno abbienti, quelle dei pescatori o dei contadini, che conducevano vite a volte al limite della miseria umana, morale e materiale. Una delle opere più note in Italia tratte da questo ciclo è quella de I Malavoglia, del 1881, rappresentata anche da un film neorealista del 1948 di Luchino Visconti, completamente in siciliano e intitolato ‘La terra trema’.

I Malavoglia sono una famiglia di pescatori di Aci Trezza, il cui capostipite più anziano è Padron ‘Ntoni, con le loro vite personali, apparentemente semplici e umilissime, ma “disgraziate”, tipiche della visione verista: la sfiducia nel progresso e un generale pessimismo nella vita di tutti i giorni. Ci troviamo nella Sicilia post-risorgimentale, ma nulla sembra essere cambiato dal dominio borbonico: una terra depressa da secoli in mano ai potentati privilegiati, agrari assenteisti e notabili mafiosi che hanno spesso cambiato casacca per non dover cambiare nulla delle antiche dinamiche di potere. La legge che regna in questo povero paese “sottosviluppato” è quella dello sfruttamento, gli ideali sono la “roba”, cioè l’attaccamento ai beni materiali che la famiglia deve possedere per vivere dignitosamente. Questi beni sono poi persi dalla famiglia, a causa di una speculazione fatta dal capofamiglia e patriarca, che è andato contro la sua stessa convinzione, di non giocare alla fortuna, di sopportare passivamente (questa è una metafora della Sicilia e delle terre riarse del Mezzogiorno d’Italia) e “di fare solo il mestiere che sai”: per questo l’ha pagata cara. Non sembra esistere all’orizzonte una possibilità di riscatto, di emancipazione per questo nucleo familiare, che si ritrova a un punto di partenza, peggiore dell’inizio della sua storia.

La secolare accettazione di costumi e destini predestinati da una società profondamente classista e patriarcale, latifondista o capitalista, implica la condanna a qualsiasi tentativo di ribellione di questi “perdenti” rappresentati dal Verga, che non fa mai commenti personali, ma da narratore esterno descrive gli eventi, i pensieri e le azioni dei personaggi della famiglia siciliana via via in rovina. Si tratta però di una descrizione diretta, il suo pessimismo traspare nelle figure, le parole non sono lasciate al caso, fanno parte di un discorso: la denuncia della disumanità sociale che da sempre contrappone i vinti ai vincitori e che non viene certo risolta con la “fiumana del progresso” secondo l’autore. I vinti sono tutti coloro che non hanno preso in mano le “redini” della propria vita, si lasciano sfruttare, sono nati o sono diventati poveri, sono storpi, sono prostitute, sono orfani, sono sfortunati per tragedie familiari o sociali; i vincitori sono quelli che governano la società, ne hanno il comando, le risorse, l’eredità, i beni o un’autorità tramandata, che si sono realizzati in qualsiasi campo con grande ambizione. 

La modernità dei testi del Verga è lampante anche per i nostri giorni: mette fortemente in discussione il progresso industriale ed economico che, come ha analizzato più recentemente il filosofo Umberto Galimberti, è solo tecnico, non migliora i rapporti umani o la sensibilità comune, non livella le disuguaglianze tra i “vinti e vincitori”. Questo progresso oggi è erede dell’American way of life, l’autorealizzazione di sé, un concetto tutt’altro che tramontato ma più pulviscolare, trovandoci in una società liquida, teorizzata da un altro filosofo, Zygmunt Bauman.

Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi.

È la crisi di comunità preannunciata anche da Verga, che tende a trascinare l’individuo in uno stato di perenne insoddisfazione della propria condizione, nel suo inutile tentativo di ottimizzarsi: il miglioramento a queste condizioni non è possibile e il risultato è sempre la sconfitta esistenziale. La forza motrice del cambiamento che ormai domina la società umana è un meccanismo crudele che schiaccia necessariamente il più debole, il vinto. Può sembrare un pessimismo conservatore, forse lo era, ma non si trattava di un limite, bensì di una vera e propria critica alla realtà, illusoria, che ancora oggi, in sordina, ci suddivide, a suo modo, in vinti e vincitori.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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