Vivere in Italia con una famiglia intrappolata a Gaza

Questa è la storia, o meglio, il grido di aiuto di una giovane donna, Sara Thabit, che vive a Milano, mentre la sua famiglia è a Gaza, intrappolata sotto le bombe dal 26 ottobre.

Il 25 dicembre, tramite comunicazioni difficili e interrotte, ha saputo che il palazzo in cui viveva la sua famiglia è stato bombardato.

Cosa può fare una figlia e sorella, lontana e al sicuro, per salvare la sua famiglia in pericolo? Lei se lo è chiesto e ha deciso di aprire una raccolta fondi per cercare di tirarli fuori tutti, ma soprattutto suo padre che ha una profonda ferita a una gamba, rischia l’amputazione e un’ infiammazione estesa, ma al momento si trova all’ospedale All Shifa di Gaza City, che non è più attrezzato a curarlo.

Il padre di Sara è gazawi, non è uno straniero o un palestinese con doppio passaporto, per questo non è stato possibile farlo evacuare dal valico di Rafah.

Al momento a Gaza gli ospedali che funzionano parzialmente sono solo quattro su trentasei e sulla Striscia ci sono quasi due milioni di persone che non sanno dove dormire e cosa mangiare.

Lo scorso mese i bombardamenti si sono spostati a sud di Gaza e in particolare intorno all’ospedale Nasser, il più grande ancora operativo, dove non solo sono ricoverati i feriti e i malati, ma dove hanno cercato rifugio centinaia di sfollati. Cecchini e attacchi aerei sono stati giustificati dai funzionari israeliani, come già successo, dalla certezza che i miliziani di Hamas operino all’interno delle strutture sanitarie, già più volte smentita dal personale ospedaliero.

Inoltre nell’ultima settimana si sono di nuovo interrotte le comunicazioni internet con Gaza e questo non è certamente un buon segno.

L’ondata di sfollati che da Nord sono stati costretti a spostarsi verso Sud si ritrova sempre più schiacciata verso un muro, quello al confine con l’Egitto, protetto da filo spinato e troppo alto, di fatto invalicabile. Al Cairo non hanno nessuna intenzione di accogliere migliaia di palestinesi a meno che non abbiano un doppio passaporto e non contino di fermarsi. Il muro si apre solo per far passare i camion con gli aiuti umanitari, ma sono comunque troppo pochi per quasi due milioni di persone. I rifugi di Rafah adibiti ad accogliere duemila sfollati ne ospitano al momento quindicimila, secondo le Nazioni Unite.

La vita dei gazawi, letteralmente schiacciati contro il muro, è una lotta per la sopravvivenza ogni giorno. I camion con gli aiuti vengono assaliti per accaparrarsi almeno un po’ di farina o riso per un pasto quotidiano, con un gabinetto ogni cinquecento persone le condizioni sanitarie peggiorano repentinamente e ci sono solo più sei ambulanze funzionanti che in ogni caso non sanno dove portare i malati, dal momento che gli ospedali sono diventati i luoghi più a rischio di attacchi bellici.

Sara Thabit sta cercando di portare fuori almeno suo padre da questo inferno, lottando contro il tempo che lui non ha, dentro una situazione sempre più statica e ingestibile.

Sono passati 75 anni dall’approvazione della Convenzione contro il genocidio, avvenuta poche ore prima dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo. Non si può non sentire lo stridore di questo anniversario di fronte allo scempio di vite umane a cui stiamo assistendo impotenti.

Non trovo al momento un altro modo per sentire di agire se non usando le parole, o meglio, scegliendo le parole giuste da usare sui canali che utilizzo per diffonderle.

Non credo in tutta onestà che Sara Thabit riuscirà a tirare fuori suo padre da quel sacrificio di civili strumentalizzato da entrambe le fazioni in lotta. Ma esiste solo un modo per contrastare l’indifferenza ed è diffondere consapevolezza. Se le mie parole raggiungeranno anche solo una persona in più, sarà servito a renderci meno passivi.

Tutti sapevano del binario 21 della Stazione Centrale di Milano, dove venivano costretti a salire e stipati su vagoni merci intere famiglie di ebrei, destinate ai campi di concentramento. Se dieci, venti, cento persone si fossero stese sui binari, qualcosa sarebbe cambiato? Non lo so, se non altro ci sarebbe stato un inghippo nell’ingranaggio, scocciature, ritardi. Tutta l’operazione sarebbe stata resa più complessa invece che semplice e avvolta dal silenzio omertoso della collettività.

Diffondere il più possibile questa singola storia di una figlia disperata che sta tentando di mettere in salvo suo padre ferito è forse l’unico modo che abbiamo per “infastidire” un po’ il progetto di genocidio in atto.

Questo è il link per accedere alla sua raccolta fondi e che la sua speranza possa alleviare un poco il suo senso di impotenza e quello di tutti noi.

https://www.gofundme.com/f/helping-my-family-geting-out-of-the-gaza-strip

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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