Brienz e la fragilità dell‘uomo

C’è un paesino di montagna, nella Valle dell’Albula, che nelle ultime settimane ha riscosso l’attenzione di molti media nazionali e non solo. Si chiama Brienz e lo scorso dodici maggio è stato completamente evacuato. 

C’è una foto molto suggestiva che gira in rete. È notte, l’intero villaggio immerso nel buio, tranne che per una luce, quella delle luminarie della chiesa che rischiarano la notte, mostrando l’imponente parete rocciosa che incombe su Brienz. È lei ad aver determinato le sorti degli ottantaquattro residenti del paese, costretti a lasciare le loro case per la frana che, ormai è certo, a breve si staccherà dalla parete. 

Si parla di due milioni di metri cubi di roccia, che corrispondono indicativamente al volume di 2000 case unifamiliari. La massa di pietre e terra, che sembra spostarsi venti centimetri al giorno, viene monitorata da mesi attraverso quattro sistemi e novanta punti di misurazione. 

È stato definito l’evento geologico meglio monitorato della Svizzera, nonostante questo, nessuno può prevedere la gravità dell’impatto sul paese e le conseguenze reali sulle abitazioni dei residenti. 

Venerdì 12 maggio, in seguito all’allerta entrata in fascia a rischio imminente, tutti gli abitanti sono stati costretti a lasciare le loro case, portandosi lo stretto necessario, senza sapere cosa ne sarà di tutto il resto. Alcuni hanno trovato sistemazioni provvisorie da conoscenti, altri in case vacanze o alberghi nelle vicinanze. 

La catena di solidarietà è stata grande e immediata. Prima ancora dell’evacuazione totale era stato attivato un servizio gratuito di consulenza telefonica, per sostenere i residenti e provare a rispondere a tutti i loro quesiti pratici, dalle assicurazioni sugli immobili, al capire dove verrà recapitata la propria posta. È stato inoltre stanziato mezzo milione di franchi per gli aiuti immediati, soprattutto per le persone più anziane che avevano bisogno di supporto per trovare una sistemazione alternativa. 

Leggere questa vicenda mi ha riportato subito con la mente alla tragedia del Vajont, del 9 ottobre 1963. Fu una frana, anche in quel caso, che precipitando nelle acque del bacino alpino realizzato con l’omonima diga, innescò l’inondazione che coinvolse prima i paesi di Erto e Casso e infine la distruzione di Longarone con la morte di 1917 persone, tra cui 487 di età inferiore a 15 anni. Le cause della tragedia, dopo lunghi processi, furono ricondotte ai progettisti e dirigenti della SADE, ente gestore dell’opera, i quali occultarono la non idoneità dei versanti del bacino, a rischio idrogeologico. 

Stesse dinamiche riviste con la tragedia del ponte Morandi, della funivia di Stresa e della più recente frana di detriti ad Ischia, solo per citare le più grandi. Tutti questi disastri annunciati sono accomunati dalla consapevolezza pregressa da parte degli enti responsabili di situazioni a rischio, che sono state occultate e taciute.

Poi torno sulle foto di questo piccolo paesino di montagna, un puntino nel verde di una vallata immensa. Penso all’impiego di forze e risorse economiche che lo Stato ha attuato per salvaguardare gli abitanti e che sono certa continuerà anche dopo, quando la frana, dopo settimane di tensione, deciderà di precipitare e si potranno finalmente quantificare i danni e concentrarsi sulla ricostruzione. 

Provo un senso di giustizia nel modo in cui tutta questa vicenda è stata gestita. Un’umanità consapevole, che riconosce l’evidente e inarrestabile potenza della natura e si ritrae, lasciando alla montagna lo spazio per fare ciò che deve senza uccidere nessuno. 

Questo piccolo esempio di attenzione e rispetto, non facile certo per chi in quel luogo ci vive ed è stato obbligato a lasciare tutto, dimostra che esiste un altro modo di gestire l’equilibrio tra gli elementi e le specie. 

Solo riconoscendo i nostri limiti, definendo confini di costruzione e guadagno, accettando che siamo ospiti fragili dentro un ecosistema che può schiacciarci come e quando vuole, possiamo forse invertire la rotta di questa crisi climatica che ci sta allertando in tutti i modi. 

C’è un’altra immagine che mostra Brienz in lontananza e un gruppo di persone di spalle in primo piano che osservano in silenzio il loro paese fantasma aspettando che la natura faccia il suo corso. 

Siamo noi quella gente, tutti quanti, impauriti e spogliati di ogni bene materiale, oggetti più o meno grandi, più o meno fondamentali a determinare lo status delle nostre vite, inutili ora sotto l’incombente potenza di una natura che non possiamo più controllare.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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