Fare i conti con il proprio razzismo intrinseco

È molto difficile in questi giorni trovare un tema di cui trattare senza farsi distrarre e travolgere dall’emotività per la terribile catastrofe umanitaria che si sta consumando in Siria e in Turchia. Qualunque argomento perde urgenza e credibilità. Ci si sente sopraffatti dall’impotenza e anche da un perpetuo senso di colpa per il privilegio che ci porta a osservare quelle immagini da molto lontano, dentro le nostre vite intaccate, in cui si progettano le prossime vacanze sulla neve. 

Ho pensato a come poter rendere, non dico utile, ma almeno coerente, un mio intervento scritto e ho deciso di raccontare un fatto, strettamente legato a ciò che sta accadendo.

A dicembre arriva una mail per tutti i genitori dei bambini che frequentano il grande circuito scolastico del nostro quartiere, che racchiude scuola dell’infanzia, scuola elementare, più due grandi palestre, per tutte le attività scolastiche ed extra scolastiche, due campi gioco e una piscina coperta. Nella mail ci viene spiegato che a breve avrebbero riaperto il bunker della protezione civile, in grado di ospitare fino a cento persone, che si estende sotto terra per buona parte della superficie della scuola. L’entrata del bunker si trova di fianco a una delle due palestre e di conseguenza ci avvisano che “potrebbero” esserci contatti visivi tra i nostri bambini e i rifugiati ospitati dalla struttura. 

La reazione iniziale sembra pendere verso un immediato slancio di solidarietà collettiva. Viene attivata una raccolta di vestiario invernale: giacche, scarpe, maglioni, richiesti esclusivamente in taglie maschili. E qui cominciano i problemi.

Dopo le vacanze di Natale, la scuola si rianima di bambini ed attività. Gli spazi tornano ad essere invasi di urla e schiamazzi, le palestre riprendono la loro programmazione abituale e i genitori che vengono a prendere i figli cominciano a notare alcuni dettagli.

Gli ospiti del bunker sono tutti uomini, giovani uomini, alcuni ragazzini poco più che maggiorenni. -“Perché mai?”- cominciano a chiedersi alcune madri. Forse perché sistemare in un bunker anti atomico, privo di luce naturale, con spazi ristretti e brandine a castello, senza la minima possibilità di privacy e silenzio, non è evidentemente la prima soluzione pensata per famiglie con bambini o giovani madri sole? 

No, questo non è il primo pensiero che emerge da quelle constatazioni, perché di quel sotto non si ha particolare interesse a conoscere. Preme piuttosto la situazione in superficie, i giovani che escono dal bunker per fumare una sigaretta nel parcheggio antistante, in quanto avvisati di non poter sostare negli spazi della scuola.

Sono ragazzi di diverse provenienze, lo si intuisce dai connotati che tengono bassi, quasi intimiditi quando li incrociamo. Piccoli gruppetti di due o tre persone massimo che prendono aria, stringono amicizie tra compagni e cercano come possono di trovare un senso in quel limbo transitorio che è la loro vita. Aspettano, per alcune settimane, come ci è stato scritto, nell’attesa di venire smistati altrove. 

Ma è proprio quel loro “sostare” qui, nel nostro giardinetto scolastico, tanto ben curato e sereno, a incutere dubbi e timori. Una struttura completamente ristrutturata da pochi anni, l’emblema di un investimento riuscito e l’orgoglio di una comunità tutta relativamente benestante, con una buona valutazione esterna dalle statistiche di successi scolastici, insomma una piccola bolla di privilegiati che si ritrovano a fare i conti con il loro razzismo intrinseco. 

Un razzismo che non si è limitato a qualche commento tra mamme perplesse e un tantino preoccupate, ma che ha generato un rumore tale da non poter più essere ignorato.

Ci arriva infatti, a distanza di poco più di un mese una seconda mail in cui ci invitano a partecipare a una serata informativa nei locali della chiesa per poter rispondere a tutte le numerose domande che sono sopraggiunte e a chiarire (di nuovo) le varie misure adottate per mantenere la situazione sicura e priva di pericoli, per le famiglie che frequentano i locali della scuola. 

Ma non basta. Il giornale del quartiere accetta di pubblicare un articolo anonimo, scritto da una madre particolarmente preoccupata per sua figlia adolescente, costretta, dopo il suo allenamento serale in palestra, a dover aspettare nel parcheggio l’arrivo dei genitori, esposta agli sguardi e alla presenza degli ospiti del rifugio che, a detta sua, ridono, fumano, ridacchiano. (Comportamenti del resto totalmente estranei ai nostri giovani ragazzi ber bene.)

Al di là nell’inutile e ridicolo pretesto di allarmare che, inevitabilmente, trova un ampio bacino di utenza se pubblicato su un giornaletto molto letto nel quartiere, mi chiedo: ma possibile che a questa donna, con il suo personale problema di insicurezza, non sia lampata l’idea di dire a sua figlia di aspettarla in un altro punto della scuola, dal momento che ai suoi occhi questo parcheggio, che, tenete conto, risulta essere l’unico spazio all’aperto vicino al bunker consentito ai rifugiati, appare quasi come un ghetto malfamato?

Certo che no. Perché devo cambiare io le mie comode abitudini, a casa mia, per giunta? Meglio aizzare gli animi su un pericolo inesistente e che non può trovare soluzione se non limitando ulteriormente la vita di quei poveri disgraziati. 

Che grande occasione perduta, l’ennesima, a dimostrare quanto siamo tutti così veloci a commuoverci davanti a uno schermo, tanto quanto alzare barricate sui nostri confini personali.

Abbiamo offerto vestiti e giacconi vecchi, certo, non siamo più biasimabili se ci preoccupiamo a vederli ridere. Di cosa, poi? Con tutto quello che “dicono” di aver vissuto.

Eccolo qua, il nostro razzismo intrinseco, che ci porta a chiederci solo quando se ne andranno invece di proporre all’associazione che organizza l’ospitalità degli incontri tra questi ragazzi e i nostri, per esempio permettendo a chi vuole, tramite mediatori, di raccontare la propria storia, fornendo ai nostri figli la possibilità di scorgere oltre la bolla in cui vivono le altre tragiche e indescrivibili realtà. 

L’incontro crea empatia e solidarietà e c’erano tutti i prerequisiti per poterlo rendere reale ed efficace per entrambi: per loro, per sentirsi meno fantasmi da schivare e per noi, per dimostrarci almeno capaci di un briciolo di coerenza e compassione.

Invece l’ennesima occasione perduta si concluderà con tanti piccoli e meschini Don Abbondio, che citando Brunori Sas: camminano con lo sguardo, che per paura, si poggia sempre altrove.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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