La bellezza e i suoi canoni religiosi

Lo scorso febbraio, un dottorando di ricerca del dipartimento Seas (scienze economiche aziendali e statistiche) dell’università di Palermo, stila una classifica delle dottorande più “hot” della facoltà. Una lettera anonima denuncia il fatto e il coordinatore del dottorando in questione lo costringe a scusarsi con le persone citate nella lista e chiede anche alle interessate se intendono procedere per una denuncia disciplinare. Riceve come risposta il silenzio e considera chiusa la vicenda, tornata a galla soltanto ora, grazie alle proteste del movimento femminista “Non una di meno” di Palermo.

Altro caso, avvenuto in un liceo scientifico di Roma, dove un professore avrebbe detto a una studentessa, dopo essersi tolta una felpa rimanendo con un top sportivo che scopriva la pancia: “O ti copri oppure ti denudi tutta”.  Secondo il Messaggero, il professore sarebbe andato anche oltre, rivolgendosi a un compagno omosessuale con queste parole: “È talmente sexy da farti cambiare sponda”.

Nel primo caso l’abuso verbale avviene per mano dei compagni di dottorato, nel secondo per mano di un insegnante. In entrambi i casi metterei la mano sul fuoco sul fatto che non si sia trattato di un primo episodio isolato. Le battutine del professore del liceo, da quanto testimoniano la ragazza e i suoi compagni, non erano una novità, finché l’escalation di volgarità non ha raggiunto il limite e il comportamento sessista è venuto a galla.

In entrambi i casi abbiamo quindi due istituzioni scolastiche che direttamente o indirettamente hanno agevolato il silenzio delle vittime piuttosto della denuncia pubblica. Perché?

Lo spiega molto bene Maura Gancitano, scrittrice e filosofa, nel suo ultimo saggio “Specchio delle mie brame” , la prigione della bellezza, pubblicato da Einaudi.

“L’idea che la bellezza sia qualcosa di oggettivo e naturale è una superstizione moderna. Infatti non è mai esistita un’epoca in cui non convivessero estetiche e sensibilità diverse. Il culto della bellezza è diventato una prigione solo di recente: quando le coercizioni materiali verso le donne hanno iniziato ad allentarsi, il canone estetico nei confronti del loro aspetto è diventato rigido e asfissiante, spingendole alla ricerca di una perfezione irraggiungibile. Qui sta il punto: l’idea di bellezza ha subito con la società borghese uno spostamento di significato, da enigma a modello standardizzato che colonizza il tempo e i pensieri delle donne, facendole spesso sentire inadeguate.”

L’autrice, attraverso un excursus sui miti della bellezza, legati a diverse fasi storiche, arriva a definire la nostra epoca quella della Religione della bellezza: “L’ideale da raggiungere ha dei caratteri molto simili a quelli di una religione che promette la salvezza e fa leva sul nostro senso di insoddisfazione, di impotenza, di inadeguatezza e sulla sindrome dell’impostore”.

Non aderire ai canoni standard produce un senso di colpa che va espiato attraverso il mercato. Si apre quindi un lungo capitolo sulle complesse dinamiche che la pubblicità ha innescato nei soggetti interessati (le donne) che vedono nell’acquisto spesso compulsivo di prodotti di cura per il corpo e interventi di chirurgia estetica l’unica via di salvezza e controllo dei propri peccati. 

È una tecnica politica molto subdola di esercizio del potere, che fa credere alle donne di avere consapevolezza e libertà di essere quello che vogliono, ingabbiando però ogni ambito che le riguarda, da quelli più privati a quelli professionali, dentro una griglia di giudizi estetici ben radicati anche a livello subconscio. 

Qualche sporadico esempio: i canoni estetici e di abbigliamento che determinano la carriera delle giornaliste televisive, cui i colleghi maschi non sono sottoposti. La temuta linea di demarcazione tra maturità e vecchiaia che determina la difficoltà di accettare serenamente capelli grigi, rughe di espressione più marcate e corpi meno tonici. Tutti aspetti cui gli uomini vanno incontro con meno angoscia e sofferenza, perché lo “sguardo pubblico” su di loro non decade automaticamente con il superamento di quel limite fittizio.

Questo processo porta al fenomeno dell’oggettivazione di sé: “Le donne sono state abituate a vedersi, a essere rappresentate e raccontate, come pezzi separati, e come pezzi separati finiscono per percepirsi. E non è solo una percezione che riguarda il fisico, ma l’identità. Ci sentiamo frammentate, combattute, contraddittorie.”

Possiamo essere astronaute o fisiche quantistiche, attrici o cameriere, l’occhio su di noi valuterà sempre per prime le nostre misure corporee, comparando proporzioni e imperfezioni, linearità e asimmetrie e infine verrà stilata la valutazione. E noi lo sappiamo, perché lo facciamo per prime , costantemente, con noi stesse e con le altre donne che ci circondano, innescando invidie e alleanze più o meno consce, paragoni e distrazioni continue da quelli che dovrebbero essere i nostri veri interessi e stimoli. 

Il silenzio delle dottorande esposte nella lista estetica del loro compagno, così come il silenzio delle ragazze di fronte alle battutine “innocenti” del professore di turno, racconta di questa adesione forzata cui nostro malgrado finiamo per aderire, facendo prevalere l’omertà verso un sistema di controllo così ben congeniato da non farci quasi percepire il livello di gravità di questi atti. 

Come se ne esce da questa morsa? Leggendo libri come quello di Maura Cangitano, che con uno sguardo limpido e coerente ci conduce verso i lati più oscuri di questa religione della bellezza, di cui tutti noi, nostro malgrado, siamo gli adepti.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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